Rapporto Medico-Paziente: alcuni spunti dalla Medicina Narrativa
Come tutte le relazioni umane (e non), la relazione clinica è una relazione basata sulla fiducia: il paziente si affida al terapeuta al fine di ottenere la guarigione o comunque un maggior livello di benessere. Si tratta quindi di una relazione "squilibrata" in cui, almeno apparentemente, una parte è svantaggiata rispetto all'altra oppure in cui una parte "riceve" e l'altra "dà".
In questa visione, la relazione paternalistica potrebbe essere quella più indovinata, poichè teoricamente il paziente è assimilabile al bambino che dipende totalmente dai suoi genitori per crescere al meglio. Ma cosa accade se il paziente per sua natura tende a lasciarsi andare ed a subire passivamente tutto ciò che gli accade? Succede che una relazione paternalistica potrebbe aggravare l'intero quadro. Per questo motivo molti terapeuti danno inizio ad una relazione colonialista, in cui la lotta contro il male fortifica la relazione terapeuta-paziente che diventa uno strumento per combattere un elemento comune: la malattia. In questo caso la relazione è meno squilibrata della precedente, poichè tutte le battaglie che portano alla vittoria o alla sconfitta sul campo di guerra sono affrontate insieme, gomito a gomito.
C'è poi il terapeuta che prova a diventare "amico" del paziente, con la trasformazione quindi della relazione clinica in relazione d'amicizia. Tuttavia, la relazione d'amicizia è molto più simile ad una relazione amorosa rispetto ad una relazione terapeutica, anche perchè sia l'amore che l'amicizia trascendono da una causa e da un effetto (l'amicizia e l'amore sono sempre disinteressati), mentre la relazione clinica nasce sempre da un'esigenza di cura.
Ecco quindi la proposta di una relazione di "buon vicinato" tra il paziente ed il terapeuta, una relazione che non può essere definita d'amicizia ma che sottende un certo grado di vicinanza (ma anche di lontananza!) che permetterebbe un'efficace close reading, come direbbe Rita Charon, del "testo" paziente da parte del terapeuta. Data per certa l'importanza della giusta distanza tra i due soggetti, ripercorrere questi modi di vedere la relazione terapeuta-paziente mi ha fatto pensare al fatto che alcuni di essi tralascino il fatto che il paziente scelga il suo terapeuta. La relazione terapeuta-paziente è iniziata dal paziente stesso ancor prima che il terapeuta assuma le sembianze che ha. La scelta del paziente è una scelta di tipo utilitaristico: egli sceglie il terapeuta o perchè crede che questi sia il più bravo o perchè il suo studio è vicino casa o perchè la sua parcella è a portata di tasca. La scelta implica il fatto che la relazione in questione è una relazione libera: io paziente scelgo te medico/fisioterapista/logopedista ecc. per una serie di cause il cui effetto principale sarà la mia guarigione o, nel caso di malattie croniche, il maggior benessere possibile.
Il terapeuta è quindi colui che si preoccupa di mantenere rifornito il dispensario degli utensili che potranno risultare utili al paziente nell'affrontare la malattia ed il percorso di guarigione. Egli stesso è uno strumento, un catalizzatore più o meno capace di stimolare e facilitare il processo di guarigione di un corpo che, in quanto vivo, ha in sè tutte le caratteristiche per tornare in salute. Il terapeuta quindi non ha il potere di guarire ma di osservare (tramite close reading), con gli speciali occhiali dell'addestramento clinico, ciò che il paziente gli sottopone all'attenzione. Il processo di guarigione inizia dall'osservazione e continua con la scelta tra gli infiniti strumenti di cui ci dota la natura (e tra questi, anche quella di non scegliere). Il paziente chiede al medico di vedere ciò che egli non può vedere (in quanto non competente) ed il medico accetta volentieri di essere un catalizzatore di guarigione.
Un contributo dalla dr.ssa Azzurra Pici
Laboratorio di analisi e Poliambulatorio medico Polo Biomedico Adriatico (Vasto, Chieti, Abruzzo)